Italian newspaper, Limes – Viaggio in Palestina: la Valle del Giordano
di Andrea de Georgio
La Valle del Giordano è una delle ferite aperte del conflitto israelo-palestinese. Si estende dal lago di Tiberiade, a nord, giù fino al Mar Morto, lungo la riva est del fiume Giordano. 120 chilometri di affilata valle rocciosa, con qualche macchia di vegetazione qua e là. Per il clima ottimale, la ricchezza del sottosuolo e l’abbondanza di risorse idriche questa valle era nota come “il granaio della Palestina” prima della guerra del 1967 contro Israele. Oggi rappresenta la più grande estensione continua di Area C. Un’eccezione nella cartina a macchia di leopardo della Cisgiordania.
Scarsissimo accesso alle risorse idriche, condizioni igieniche e alimentari critiche e continue demolizioni di case rendono la Valle del Giordano un luogo in cui la sopravvivenza è una lotta quotidiana.
Fathy al telefono è risoluto: “Ci vediamo fra qualche ora al supermarket Abu Hassan di Al Hogia”. Anche se è venerdì, giorno di festa, da Ramallah è facile raggiungere Gerico. Da Gerico allo sperduto villaggio di Al Hogia, invece, non ci sono trasporti pubblici. Fortunatamente trovo un passaggio sull’affaticato furgoncino Renault di un contadino. Arrivato davanti al fantomatico supermarket Abu Hassan non posso credere ai miei occhi. Tutto quello che vedo è una baracca di legno e lamiera con tanto di frigo rotto e due sedie all’esterno.
Mi accoglie Abu Hassan, proprietario eponimo nonché unico presente. “Prego, accomodati. Preferisci tè o caffè? Fathy ha detto che arriverà, insh’Allah (speriamo)”. Come spesso succede in Medio Oriente, insh’Allah vuol dire, quando va bene, tra qualche ora. Mi armo di pazienza e scambio qualche parola con Abu Hassan. E’ un buon musulmano, mi dice, e per questo non si preoccupa del futuro. “E’ tutto scritto nel Corano. Prima o poi Iddio ucciderà tutti gli ebrei e questa tornerà la nostra terra”. Anche se il tè che sto bevendo è bollente e ci sono 40 gradi all’ombra, mi si gela il sangue.
Dopo due ore di caldo e mosche appare all’orizzonte un pick-up bianco. Scende un omone imponente. Da come mi stringe la mano capisco che si tratta di Fathy Hadirat, leader dei Comitati Popolari della Valle del Giordano, associazione nonviolenta e apolitica delle comunità locali nata nel 2003. E’ un uomo di poche parole. Braccia abbronzate da manovale e occhiali da sole. Mi carica in macchina e partiamo sgommando. Cerco timidamente di spiegare il motivo della mia visita, ma Fathy mi fa capire subito come funzionano le cose da queste parti. “Se sei venuto per parlare, hai scelto un cattivo momento. Lunedì scorso (il 19 luglio, ndr) l’esercito israeliano ha demolito un intero villaggio a pochi chilometri da qui. Abbiamo molto lavoro da fare prima che arrivi il Ramadan…Benvenuto nella Valle del Giordano!”.
Annessa de facto da Israele, come denuncia l’associazione israeliana B’Tselem, la Valle del Giordano viene considerata il confine naturale tra stato ebraico e Giordania. Il 95% del territorio è sotto il diretto controllo israeliano, stando alle cifre dell’Ocha (l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari). Il 44% è riserva naturale o “Military Firing Zone”, zona adibita esclusivamente all’addestramento militare. Più del 50% del territorio, invece, è occupato dalle colonie. Alle comunità palestinesi che abitano i 17 villaggi della zona, in maggioranza beduini seminomadi, non rimane che il 6%.
Si lavora per tutta la giornata sotto un sole incandescente alla costruzione dei bagni di una scuola. L’intera struttura si compone in tutto di sei container prefabbricati azzurri e rosa, col tetto in lamiera. I bagni invece sono di cemento. Una grande bandiera della Palestina dipinta sulla facciata. “Abbiamo iniziato a costruire questa scuola il primo gennaio scorso. Lavoriamo poco alla volta e in piccoli gruppi, soprattutto il venerdì e il sabato. E’ illegale costruire qui, ma durante il fine settimana i soldati israeliani si riposano un po’. E noi lavoriamo”. Fathy nasconde sotto i baffi un leggero sorriso di soddisfazione, per mantenere inalterata quell’aria da leader pragmatico e misterioso che gli conferisce carisma. Mentre parla non smette un istante di impastare il cemento a mano. Ghiaia, sabbia, malta e sudore della fronte.
“Fra poco la scuola sarà pronta. Servirà a centinaia di bambini delle comunità beduine sparse in questa zona della valle”. Mi guardo attorno. Il nulla. Paesaggio ancestrale di pietre ocra. Un deserto roccioso costellato da montagne. Uniche prove della presenza umana che si scorgono nel raggio di chilometri sono, oltre alla scuola, due enormi cisterne d’acqua israeliane recintate, una strada asfaltata a fondo valle e una colonia in lontananza. Prima del ’67 si stima che la Valle del Giordano, l’insediamento umano permanente più antico del Mondo, fosse abitato da più di 300.000 palestinesi. Oggi ne sono rimasti meno di 60.000, di cui la stragrande maggioranza vive nelle città di Gerico e Tubas.
Terminato il lavoro passo la notte a casa di Ahmad, uno dei ragazzi del Comitato Popolare. Lo chiamano tutti Obama, per via della carnagione scura e dei tratti pronunciati del viso. E’ un beduino di 26 anni. Vive a Jiftlik, villaggio di circa 5000 abitanti al centro della Valle del Giordano, vero cuore pulsante della resistenza non violenta della regione. Jiftlik è un grosso villaggio che si sviluppa in lunghezza, ai piedi della catena montuosa che fa da limite orientale della valle. Al di là delle montagne c’è la Giordania. La sera si intravede l’alone luccicante dei fasti di Amman.
La casa di Ahmad è un’umile costruzione di cemento dipinta di verdino, ai piedi della montagna. Due stanze e un bagno con turca, lavabo e secchio per la doccia. Il tetto è di legno e lamiera. Quasi tutto il territorio della valle è in Area C, ma alcuni villaggi, come Jiftlik, si trovano in parte anche in Area B. La differenza la si percepisce guardando i tetti delle case. Le costruzioni che sorgono in Area C, illegali per il diritto israeliano, hanno il tetto in lamiera. Meno costoso e più facile da ricostruire in caso di demolizione.
La casa di Ahmad, abbattuta nel 2005 dai bulldozer dell’esercito israeliano e ricostruita l’anno scorso dai Comitati Popolari (grazie al supporto dell’ong internazionale Save the Children e dell’associazione palestinese Ma’an Development), qualche mese fa ha ricevuto un ordine di demolizione. La casa di fianco è stata demolita di recente. Ci viveva una famiglia di 11 persone, ora trasferitasi a Gerico. Ci sono ancora i calcinacci a terra.
Nonostante tutto Ahmad innaffia le sue piante. “Mia moglie non c’è, è in Giordania al matrimonio di sua sorella. Ci siamo sposati un anno fa, quando la casa era finalmente pronta. Questo è il nostro giardino, la cosa a cui più teniamo al mondo”. Mi mostra orgoglioso le sue neonate piantine di arancio, limone, salvia, menta piantate fra i sassi e la terra color d’argilla. Macchie variopinte fra copertoni squarciati e vecchi secchi di cemento. Innaffia tutto con una pompa di plastica che arriva da una cisterna nera, conseguenza onnipresente e simbolo della scarsità d’acqua della Cisgiordania.
In Area C e in particolare nella Valle del Giordano negli ultimi anni è in corso un’emergenza umanitaria causata dalla scarsità d’acqua, come denunciano alcune organizzazioni internazionali. Secondo un report dell’aprile 2009 della Banca Mondiale, l’accesso alle risorse idriche in certe zone dell’Area C “è comparabile ai campi profughi del Congo o del Sudan”. Attenendosi alle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità il consumo d’acqua medio giornaliero pro capite, per garantire utilizzo personale e standard di igiene, si aggira attorno ai 100 litri. Alcune comunità della Valle del Giordano, e di altre zone critiche dell’Area C, raggiungono una disponibilità di 10 litri a persona al giorno.
Osservando Ahmad capisco che ogni giornata di un beduino inizia e finisce con gli stessi semplici gesti. Tè nero di Nablus con foglie di salvia e narghilè. La valle è splendida alla luce del mattino. Un paesaggio lunare. Ahmad fa roteare un braciere per ravvivarne il carbone, tracciando ampi cerchi infuocati nell’aria. Le montagne tutte attorno sembrano dune di sabbia soffice. Ordinate file di palme colme di datteri riempiono il ventre della valle. Si avvicina il Ramadan. I datteri sono tra i prodotti tradizionalmente più consumati nelle abbuffate notturne, quando nelle famiglie si festeggia la rottura del digiuno. ”I datteri della Valle del Giordano sono i più buoni del mondo!” dice la gente.
Ahmad mi indica in rapida successione gli insediamenti israeliani appollaiati sulle colline circostanti, le basi militari, con le grandi cisterne d’acqua, e i verdi campi dei coloni, circondati da recinti elettrificati. Mi racconta che la poca acqua corrente che c’è a Jiftlik arriva grazie ad un sistema di tubi di plastica costruito clandestinamente dai Comitati Popolari, che pompa l’acqua da una sorgente di un villaggio distante chilometri. “E’ una novità per noi, ha solo due mesi”. L’elettricità a singhiozzo è frutto invece di un allaccio abusivo al sistema elettrico delle serre dei coloni, dall’altra parte della strada.
“L’anima delle attività dei Comitati Popolari della Valle del Giordano è il non rispetto della legge israeliana. Se la rispettassimo saremmo costretti ad andarcene da qui o morire”. Fathy è spigoloso quanto determinato. “Questa zona è la più dimenticata della Palestina. E’ dal ’67 che Israele cerca di isolarci dal resto della Cisgiordania e di costringerci ad andarcene. Il governo fantoccio dell’Autorità Nazionale Palestinese, il Ministro dell’Agricoltura, la comunità internazionale, le ong…dicono tutti di volerci aiutare. Ma rispettando le leggi israeliane non fanno nulla di davvero utile alla gente. Per esempio: perché distribuire cisterne d’acqua spendendo migliaia di dollari, quando questa terra è ricca di sorgenti e fonti d’acqua naturali?”.
Mi parla senza quasi guardarmi, fra un trapianto di palma e la costruzione di un muretto di sassi a Jiftlik. “Dovrebbero capire che senza questa striscia di terra non si può costruire lo Stato Palestinese di cui tanto parlano. La Valle del Giordano rappresenta il bacino idrico, la zona agricola più fertile e, soprattutto, il confine del futuro stato, l’unico accesso al mondo esterno”. Tra una frase e l’altra lancia un’occhiata ai ragazzi che, poco lontano, impastano fango e paglia per farne mattoni.
Nonostante i dolori alla schiena causati da anni di manovalanza, ha sempre le mani sporche della terra della sua valle. “Noi con il nostro lavoro quotidiano lanciamo un messaggio alla gente: se hai bisogno di qualcosa, lo puoi fare con le tue mani. Il nostro motto è al-Baqa’a muqawama, esistere è resistere!”.